In questo intervento vorrei parlare di possibili elementi del lavoro chiave nelle comunità durante i partendo dal mio lavoro di supporto come supervisore nelle comunità terapeutiche durante l’emergenza Covid.
Innanzitutto vorrei brevemente descrivere in poche righe la situazione che hanno attraversato le comunità terapeutiche in questi mesi anche per poter immaginare e predisporre di quali strumenti ha bisogno la comunità terapeutica per affrontare la seconda ondata del Covid .
In Italia , a causa dei decreti emessi dal governo le comunità terapeutiche sono state equiparate alle strutture residenziali per anziani, che come ha riportato la cronaca, sono state inizialmente la maggiore fonte di contagio e , a causa dell’età dei residenti e delle patologie pregresse: strutture in cui si sono contati il maggior numero di persone poi decedute.
Questa omologazione ha comportato gravi disagi nelle comunità terapeutiche poiché comprensibilmente le comunità ospitano pazienti relativamente giovani che hanno esigenze e bisogni relazionali e quindi sociali estremamente diversi dagli anziani nelle case di cura. Gli ospiti delle comunità hanno dovuto infatti interrompere per lunghi mesi ogni interesse e attività esterna alla comunità , come la formazione, il lavoro, gli hobbies e ogni relazione sociale, comprese quelle con i propri famigliari. L a situazione che si è creata è divenuta analoga a quella dei vecchi Manicomi in alternativa e contro i quali sono nate in Italia le comunità terapeutiche.
Anche gli operatori hanno dovuto limitare i propri rapporti sociali sotto il peso della responsabilità di non diventare portatori del virus in comunità e hanno dovuto sottostare a continui e periodici controlli tramite tamponi e test sierologici
A questo riguardo queste misure molto limitative degli spostamenti di tutti hanno fatto in modo che le comunità si siano rivelate le strutture più sicure del comparto sanitario italiano non registrando particolari criticità dal punto di vista medico.
Le cose sono andate diversamente, a mio parere, dal punto di vista psicologico: un numero significativo di pazienti ha infatti abbandonato il percorso terapeutico e molti operatori negli ultimi mesi hanno iniziato a soffrire dei sintomi di un disturbo post- traumatico da stress proprio quando , durante l’estate, con l’allentamento delle misure restrittive, c’è stato un abbassamento della tensione ed è comparso una sorta di effetto Rebound.
Si può dire che ,come la popolazione in generale, essi hanno iniziato a mostrare i sintomi di un “trauma collettivo”.
E allora tornando al tema del mio intervento qual’e’ il lavoro chiave che il team deve svolgere durante il ritorno dell’emergenza Covid ? : è una questione determinante per me che spesso vengo chiamato direttamente a lavorare sulle questioni centrali dello staff e non solo su quelle dei pazienti.
Facendo riferimento a quanto afferma Bob Hinshelwood ovvero “I processi e le dinamiche mediante i quali si evita l’ansia devono essere ciò su cui primariamente si focalizza l’attenzione del supervisore”(Pag.197, 1997) direi che gestire e abbassare il livello dell’ansia, se non dell’angoscia dettata dalle circostanze ( Covid) è il primo compito dello staff : infatti un clima comunitario condizionato dall’ansia è il clima meno favorevole a consentire il corretto svolgimento dei programmi e dei processi terapeutici. Se non lo si è provato è difficile comprendere il grado di esaurimento emotivo e le difese abnormi contro l’angoscia e in generale il grado di esasperazione di chi lavora in comunità terapeutica: il legittimo sentimento degli operatori, in alcuni momenti della vita istituzionale , di voler essere altrove, in qualsiasi posto pur di non essere in comunità.
La Comunità infatti sotto la spinta dell’ansia può facilmente andare incontro ad un accumulo di “residui” non elaborati che generano disfunzionalità del compito. Tanto maggiore è il deposito emotivo non elaborato, tanto più risulterà obliterata la possibilità dei partecipanti di comunicare tra loro, e tanto maggiori saranno i fenomeni patologici di gruppo.
Da quanto affermato si comprende che un altro dei compiti dello staff durante il periodo Covid è quindi mantenere massima attenzione al compito primario e non cadere vittima di una ansia ingestibile.
Un altro elemento importante a mio parere è quello di tentare di evitare in ogni modo le tendenze ad una coesione antiterapeutica del gruppo comunità.
La narrazione presente in alcune comunità durante la prima ondata del Covid era infatti quella che l’isolamento obbligato aveva tuttosommato creato un buon clima solidale e una buona coesione del gruppo ospiti-operatori o leaders e followers in generale , e che successivamente questa atmosfera era andata distrutta alla fine dell’isolamento, nella pausa estiva in cui i contagi erano diminuiti, quando, in una certa misura, era stato possibile ripristinare, con le dovute cautele, gli ordinari rapporti famigliari e sociali. Sembrava addirittura che l’isolamento in generale avesse avuto la capacità di migliorare le condizioni degli ospiti e dei rapporti tra questi e lo Staff e che questa intesa fosse andata immediatamente perduta con la riapertura delle comunità all’esterno.
Pur essendo tutti consapevoli delle restrizioni e del malessere creato dalla “ chiusura”
non era difficile intuire il sentimento diffuso negli operatori che “ si stava meglio quando si stava peggio”.
Mi è parso di intuire in questo sentimento, espresso spesso all’unanimità, una chiara forma di coesione antiterapeutica del gruppo comunità. E’ abbastanza evidente che una chiusura autoreferenziale durata alcuni mesi, senza il lavoro con le famiglie, senza il contributo della ricchezza della vita sociale , avrebbe potuto nel migliore dei casi creare uno stand by del processo terapeutico, ma difficilmente un suo miglioramento.
Al fine del nostro discorso, credo torni utile un concetto creato da Foulkes di Matrice del gruppo. Con questo termine egli indica una rete coesiva di comunicazione nella quale sono impegnati tutti i membri del gruppo. Egli distingue due principali differenti matrici del gruppo: la matrice “fondamentale” del gruppo ( dal carattere generico) cioè i valori e gli atteggiamenti che i membri portano con se dalla precedente socializzazione nella famiglia e nella società , e la “matrice dinamica”, che è la rete di gruppo creata artificialmente , estranea ma potenzialmente molto intima . Questult’ulima per Foulkes costituirebbe il campo in cui avvengono i cambiamenti.
In riferimento al nostro discorso, non è forse errato affermare che durante il primo Lockdown sia avvenuta una sospensione della “matrice dinamica” ( quella terapeutica del cambiamento ) e questa sia stata sostituita da quella “fondamentale” e originaria. In questo senso al processo terapeutico orientato al cambiamento è stato sostituito quello molto più rassicurante del contenimento della paura di un agente esterno (il virus). Il gruppo ha optato quindi per un assetto dal carattere difensivo che se ha tutelato tutti i membri dalla paura della contaminazione diffondendo un sentimento di solidarietà, ha reso latenti però tutti conflitti nel gruppo, e insieme a questi tutti i processi di elaborazione più profondi che stanno alla base della dinamica del cambiamento. In alcune comunità la coesione antiterapeutica difensiva si è a volte concretizzata nella creazione di una fenomenologia ben descritta da Bob Hinshelvood come dinamica della montagna incantata o della comunità come paradiso.
Oltre a ciò è risultato inoltre evidente che i problemi lasciati inevasi durante l’ emergenza si siano riproposti in modo accentuato , in estate, al primo allentamento delle misure prese per far fronte all’emergenza stessa, e che conseguentemente si sono riproposti in modo accentuato vecchie divisioni e scissioni tra gruppo pazienti-operatori o all’interno dello stesso Staff dimostrando quanto precaria e antiterapeutica era quella coesione . E’ chiaro, anche sulla scorta dell’esperienza appena trascorsa che la creazione di quelle dinamiche andrebbe attivamente evitata.
Uno dei più recenti principi teorici della comunità è l’intensività dell’intervento che a va mantenuta ad ogni costo ed in ogni circostanza. A questo fine gli interventi che vanno messi in opera tempestivamente sono quelli atti a dare continuità al contenitore istituzionale tramite un sostegno emotivo allo Staff . La Supervisione istituzionale dove questa è stata interrotta o è del tutto assente , costituisce la condizione necessaria ma non sufficiente a dare stabilità al contenitore istituzionale. A questo intervento infatti sarebbe bene aggiungere gruppi volti alla migliore gestione degli aspetti emotivi dello staff ed inoltre gruppi dedicati al sostegno dell’io professionale degli operatori.
Questi interventi, che dovrebbero essere considerati in una situazione di ordinaria operatività, divengono in una situazione di emergenza conditio sine qua non per mantenere in piedi il compito primario dell’istituzione che è mantenere il più alto grado di funzionalità ed empatia dell’equipe per la miglior cura dei residenti e non la mera sopravvivenza dell’istituzione stessa.
Ma allora alla luce dell’esperienza appena trascorsa , oltre all’evitamento della creazione di quelle dinamiche cosa fare? Facendo riferimento al titolo molto esplicativo di una giornata di Studio del 22 settembre dal titolo “Ri-fare comunità al tempo del covid-19” ,organizzata dall’associazione italiana per le comunità terapeutiche Mito e Realtà io credo che una risposta sia contenuta nella storia stessa delle comunità , fin quasi dalla loro nascita scientifica ovvero per ri-fare comunità le comunità devono in queste circostanze recuperare alcuni dei loro principi fondativi che corrispondono direttamente ai valori democratici ovvero: Il comunitarismo , le democrazia, la tolleranza ma anche il confronto con la realtà con questa emergenza, e non ultimo, la cultura dell’indagine (culture of inquiry) . A questo proposito una collega, Ilaria Persiani , ha scritto :
“ Crediamo che sia centrale per ripartire e rifare comunità coltivare il sentimento interno di essere comunità, attraverso lo strumento dell’osservazione, delle dinamiche personali, dei movimenti gruppali, delle appartenenze e delle distanze. In secondo luogo e’ molto importante coltivare i diritti di cittadinanza, all’interno di un sentimento di apparternenza che puo far si che si possa rinunciare a qualche diritto, in virtu’ di un progetto comune in cui ci si riconosca parte attiva per la limitazione della diffusione del virus”.
Da quanto qui affermato risulta chiaro che tutti gli sforzi e le risorse della comunità andrebbero volti principalmente a mantenere tutte le caratteristiche principali del dispositivo terapeutico ovvero principalmente la salute mentale dei singoli operatori e del gruppo curante tramite la comprensione delle forti ansie che lo attraversano, la sua capacità di gestire e mantenere una coesione non difensiva e dal carattere terapeutico salvaguardando le qualità empatiche del contenitore istituzionale verso la creazione e il mantenimento di un clima ambientale che risulti nell’insieme terapeutico per gli ospiti.
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