Le Strutture portanti della comunità terapeutica: la dialettica tra individuo e gruppo, tra organizzazione clinica e vita quotidiana

Le Strutture portanti della comunità terapeutica: la dialettica tra individuo e gruppo, tra organizzazione clinica e vita quotidiana

Un’archiettura solida, leggera, mobile.

“Nella mia concezione personale pensare all’istituzione tende ad assumere la forma di un’architettura: del resto la disciplina dell’architettura da sempre è stata al confine tra costruzione di strutture rigide e plasticità conformata secondo le esigenze degli esseri viventi che le usano, dalle caverne dei primitivi (…) fino alle architetture dei regimi totalitari riconoscibili come incapaci di ospitare esseri viventi, fino alle architetture che tendono a negare l’istituzione necessaria a favore di un’instabile creatività individuale (…) Renzo Piano con le sue costruzioni calate nel tessuto sociale, stabili e leggere fornisce esempi di istituzioni necessarie: solide, leggere e luminose (…) Per esempio il Beaubourg di Parigi dove le strutture che tengono in piedi l’edificio non sono celate sotto terra o coperte di intonaci, ma sono mostrate in bella vista, colorate potenti, orgogliose di provvedere a far funzionare l’insieme” (Anna Ferruta, 2016).

La comunità terapeutica è un organismo vivente, un’orchestrazione di molteplici strumenti e protagonisti (operatori, residenti, familiari, invianti, reti naturali ecc.) un’istituzione quindi ben evocata da questa immagine suggerita da Anna Ferruta, di architettura solida, ma leggera e dinamica.

In questo contributo cercherò di delineare quali sono le strutture portanti di questa architettura, mettendo in risalto l’impianto di base e le articolazioni interne che fanno funzionare l’insieme per realizzare quelle finalità cliniche, riabilitative e sociali che costituiscono la sua mission essenziale. Mi pongo al di là degli obiettivi specifici, che è importante poi declinare secondo le diverse caratteristiche delle CT: per residenti adulti o adolescenti o minori, per psicotici, o pazienti con disturbi di personalità, doppia diagnosi e tossicodipendenza, o autori di reato, per madre-bambino, per donne che hanno subito violenza ecc. sia tipologie di antica data, ma anche quelle che stanno nascendo di recente sul nostro territorio nazionale.

Si tratta di una visione generale, scaturita soprattutto dalla conoscenza delle comunità del network di “Mito&Realtà” che da alcuni anni stanno elaborando indicatori che potrebbero costituire un minimo comun denominatore per un “modello italiano” di Comunità. Pur nella diversità dei tipi di fondazione e di assetto (privato accredito o pubblico) una prima caratteristica fondamentale che le accomuna è rappresentata da una impostazione democratica con una leadership clinica e organizzativa, distinta ma in costante dialogo, uno staff che funziona da followership, che promuove e sostiene le molteplici attività con una corresponsabilità gruppale orientata all’integrazione2 e al mantenimento di un clima emotivo-affettivo sicuro e protettivo sia per i residenti che per gli operatori (Correale 1990; Obhlozer, Perini 2001, Perini 2012; Ferruta 2012). Comunità dai confini definiti, ma permeabili e aperti al costante confronto teorico-clinico con altre CT e all’inclusione nel tessuto sociale locale o più ampiamente regionale, nazionale e internazionale (Barone, Bruschetta 2015).

Per chi si avvia all’inserimento, la comunità terapeutica è un percorso di cura con un tempo e uno spazio definito, in cui poter sviluppare quella dialettica continua di tra momenti di intimità individuale e ascolto privato ed esperienze gruppali che lo pongono a confronto con l’Altro da sé (sia simbolico che reale) nelle molteplici sfaccettature dei comportamenti e delle proiezioni che si incrociano costantemente nel vivere quotidiano; quindi da un lato propone un progetto evolutivo “su misura” con un riferimento centrale personalizzato (sia esso l’operatore di riferimento o uno psicoterapeuta) volto alla coesione, all’irrobustimento del sé e all’acquisizione di capacità riflessive e dall’altro una dimensione di gruppo che possa far crescere un senso di appartenenza e responsabilizzazione, come premessa per aprirsi gradualmente alle connessioni con le reti familiari, sociali esterne alla CT. E’ su questa difficile compresenza e oscillazione tra Sé e l’Altro che si gioca gran parte dell’efficacia del trattamento, pur negli inevitabili sbilanciamenti, tra chiusure e ritiri o immersioni coinvolgenti e spesso deflagranti (Napolitani, 1987)

Inoltre con il trattamento residenziale ci troviamo immersi in una realtà molto complessa e multidimensionale che comporta un’organizzazione specifica; “Un paziente in Comunità è infatti soggetto a vari “interventi” contemporaneamente: psicofarmaci, psicoterapie individuali e gruppali, interventi riabilitativi psicosociali, interventi sulla famiglia, influenza del milieu e del corso naturale del disturbo, eventi contingenti, etc. Pertanto, in CT, bisognerebbe quantomeno parlare di “relazioni terapeutiche”, piuttosto che di “relazione terapeutica” (Maone, 2011).

In ogni caso però anche per i pazienti più gravi la qualità delle relazioni interpersonali si è rilevata come nucleo centrale (core) delle pratiche ed è associata ad esiti favorevoli attraverso un ampio range di setting e di popolazioni di pazienti; si tratta quindi di articolare questi moltepici setting, in modo flessibile, secondo le fasi del percorso terapeutico personalizzato e condiviso, utilizzando pienamente le potenzialità sia degli spazi individuali, che collettivi…

Leggi la versione integrale

Grazie al contributo degli autori questo articolo scientifico è liberamente fruibile. Per legge e scaricare la versione integrata è necessario diventare membri del network.

Ti potrebbe interessare anche