Residenzialità terapeutiche a bassa protezione: un’opportunità di intervento “leggero” in tempo di crisi?

Sempre più spesso è possibile rilevare, nell’ambito delle comunità terapeutiche per pazienti psichiatrici, una necessaria e naturale e tendenza a dotarsi  di appendici e costole, “istituzioni leggere” per così dire, al fine di graduare la dimissione dei loro ospiti. Essendo un fenomeno attuale e sempre più diffuso credo sia utile indagarne la natura, soprattutto perché esso mi sembra possa rappresentare un tentativo alquanto valido di venire incontro  ad alcuni bisogni degli ospiti e quindi  di fatto  può costituire una delle possibili evoluzioni del modello della comunità terapeutica tradizionale.

A questo proposito, dopo una breve descrizione dei vantaggi di queste strutture per la fase di dimissione degli ospiti, vorrei indagare altre possibili  potenzialità e applicazioni a prescindere da quello specifico utilizzo, poiché esse potrebbero costituire una valida alternativa a interventi impropri sia dal punto di vista clinico che  economico: circostanza quest’ultima, che non può essere trascurata nell’attuale momento storico caratterizzato da forti criticità e difficile sostenibilità di molti progetti in psichiatria.

In generale credo che la nascita di queste “istituzioni leggere”, definite spesso come Unita di Fase Avanzata, Unità di reinserimento etc,  sia conseguente ad una maggiore attenzione etica e professionale a quel delicato   momento del percorso terapeutico dell’ospite che è la dimissione. Le dimissioni infatti costituiscono il punto di repère, il momento  conclusivo e decisivo sul quale si giocano le  sorti di tutto il percorso terapeutico : trascurarne l’importanza vorrebbe dire mettere a rischio l’esito  del trattamento e tutte le risorse economiche ( dell’istituzione inviante) professionali (dell’equipe curante)ed emotive (del paziente e della sua famiglia) investite. Dal punto di vista clinico, queste istituzioni consentono un graduale scioglimento ed elaborazione( presumibile) della relazione terapeutica instauratasi tra il paziente e l’equipe tramite un allentamento dei nessi emotivi e transferali e una graduale sostituzione della realtà sociale all’artificio terapeutico dell’equipe curante.

Il graduale investimento che l’ospite fa del mondo sociale , tramite l’assunzione di un maggiore carico di responsabilità degli aspetti concreti della propria vita (dalla spesa, alla preparazione dei pasti, ed in generare alla autogestione quasi completa dei tempi di vita e del denaro) e la riduzione parallela dell’assistenza terapeutica da parte dell’equipe curante , costituiscono una sorta di messa alla prova, una specie  di paracadute prima dell’uscita , che consente ai curanti, spesso per la prima volta, di valutare l’effettività degli interventi prestati, il loro esito e la loro validità. Infatti quale valutazione più concreta può esserci , per i pazienti psichiatrici, del loro modo di relazionarsi alla realtà?

Queste  strutture consentono inoltre di valutare la validità del trattamento anche nei termini del rapporto costo- beneficio dell’intervento: l’evidenza dei risultati ottenuti trova verifica nel minore carico assistenziale ed economico prestato (questi interventi sono infatti meno costosi) , nella sua graduale diminuzione a volte nella sua auspicabile estinzione. Il modello di dimissione della comunità Passaggi (dove io opero)  prevede ad esempio la programmazione successiva al Progetto di Fase Avanzata, di appartamenti gradualmente  sempre meno assistiti, fino a residenzialità interamente autonome a totale carico degli utenti ( con un totale annullamento dei costi sociali dell’intervento).

La continuità terapeutica è garantita in questi casi da visite psichiatriche quindicinali o mensili  per la verifica del solo trattamento farmacologico, ove esso sussista, ed in casi eccezionali di emergenza , dal ripristino del rapporto domiciliare con un operatore. Ma la garanzia che il passaggio in queste strutture leggere costituisca un effettivo miglioramento delle condizioni dell’ospite e del suo rapporto con la realtà è costituito dalla verifica della sua capacità  di investire in percorsi formativi e lavorativi.  La formazione professionale è spesso iniziata già durante il percorso in comunità e presiede ad ogni ipotesi di dimissione ragionata, mentre la messa alla prova lavorativa avviene comprensibilmente,e nella maggior parte dei casi, durante o dopo la dimissione vera e propria dal progetto terapeutico della comunità.

Esiste infatti una naturale incompatibilità dell’investimento nella cura intensiva nel gruppo comunità con l’investimento lavorativo a causa  di una naturale limitatezza delle risorse emotive e cognitive di ogni essere umano che si trova in una situazione di difficoltà . Al  graduale disinvestimento dei setting terapeutici può così conseguire un graduale investimento del mondo sociale e lavorativo: alla graduale riduzione degli elementi protettivi della comunità può corrispondere  una relativa e graduale assunzione del rischio dell’apertura al mondo sociale, possibile anche tramite un migliore gestione dell’ansia.

Naturalmente in questo percorso è in opera un importante cambiamento della dimensione identitaria dell’ospite che deve essere in grado, senza misconoscere le problematicità che ancora lo attraversano ( non esiste in psichiatria restitutio ad integrum , ma ottimisticamente guarigione sociale) di gestire gli aspetti residuali della sua patologia e renderli compatibili con la sua nuova dimensione identitaria e sociale.

Naturalmente in questo percorso verso il reinserimento nella ricchezza del mondo sociale ( a cui egli può attingere spesso pienamente per la prima volta dopo anni) egli non sarà solo ma accompagnato da operatori che oltre ad avere competenza della sua realtà psichica devono dar conto della complessità delle reti sociali con le quali il paziente entrerà in contatto , degli intricati processi di inclusione sociale e lavorativa, dei vincoli normativi e amministrativi , della gestione dei fattori di rischio. A questo riguardo bisognerà essere consapevoli dei limiti della propria comprensione di questi complessi processi sociali.

A  questo riguardo scrive L.Maguire:

Molti terapeuti e operatori della salute mentale sono consapevoli della importanza delle reti sociali e cercano di valorizzarle (in particolare gli operatori che lavorano in una prospettiva psicosociale o quanti si rifanno all “psicologia dell’Io”, alla terapia familiare o ad altre forme di terapie di gruppo). Nonostante questo , poco si sa di come sia possibile utilizzare e “manipolare”le reti per fini specifici di terapia. (pag 59)

Vorrei ora prendere in considerazione la possibilità che questo tipo di intervento possa essere utilizzato anche da persone che non necessariamente si trovano nella condizione di dover essere dimesse da una comunità, ma attraversano una condizione clinica più a meno analoga a quella di un ospite in fase di dimissione. In altri termini persone che pur avendo raggiunto ( o non avendo mai perduto) una certa autonomia si trovano in una situazione di impasse, priva di esiti , e  desiderano sperimentare ulteriori gradi di autonomia, implementare la possibilità di nuove socialità, iniziando magari per la prima volta un trattamento terapeutico, ma partendo da un luogo semi-protetto (semi assistito) che riconoscendo le reali abilità e competenze possa dare maggiori garanzie di cambiamento (e contenimento delle ansie o angosce legate ai processi di cambiamento).

Persone che non hanno bisogno di un’assistenza sulle 24 ore ma solo della possibilità di  confronto e verifica, in diversi momenti della giornata, con  operatori in grado di comprendere le loro difficoltà e di supportarli in un nuovo progetto evolutivo. Operatori in grado di valutare e salvaguardare il loro status psichico e di evitare le inutili regressioni che la vita istituzionale di gruppo può comportare. Queste persone difficilmente accetterebbero l’intervento in comunità ( e in effetti o non l’hanno mai scelto, o l’hanno già sperimentato e chiedono qualcosa di diverso) poiché alcune restrizioni legate al bisogno di sicurezza e contenimento, tipiche dell’intervento comunitario, risultano  del tutto inadeguate ai loro bisogni e alle loro condizioni.

Si presume infatti che questi clienti abbiano superato le fasi sub-acute ( fasi che caratterizzano invece la richiesta di inserimento in comunità) siano relativamente in grado di stabilire relazioni di reciprocità, abbiano una relativa capacità di confronto con la realtà, ma non siano ancora in grado di sperimentare una autonomia più piena ovvero non siano ancora in grado di vivere autonomamente, di autogestirsi, di fare autonomamente progetti per il futuro.

L’intervento in una struttura a bassa protezione, consentirebbe loro di evitare il rischio di una stabilizzazione “verso il basso” ovvero una cronicizzazione che può essere nascosta dietro un relativo “compenso” ma che non consente o rende difficile la sperimentazione di gradi ulteriori di sviluppo ed autonomia. Tutto ciò senza dover ricorrere all’ ”intensività” dell’intervento in una vera e propria comunità terapeutica, ovvero a quell’insieme di interventi; gruppali ,individuali ,riabilitativi, che caratterizzano il classico intervento in una Comunità terapeutica ad alta protezione.

Si potrebbe dire addirittura dire che un intervento intensivo e assistito sulle 24 ore possa addirittura nuocere a questo tipo di clienti, perché può indurre fenomeni di dipendenza assistenziale che possono invece essere giustificati per i pazienti sub-acuti che devono invece necessariamente attraversare fasi di dipendenza per arrivare a fasi di ulteriore autonomia.

Per questi pazienti invece occorre un assoluto rispetto delle autonomie acquisite  e un attento evitamento di qualsiasi processo regressivo che risulterebbe “non utile”.

Anche nella sfera dei meccanismi di dell’appartenenza , da  parte dei residenti, credo si possa parlare di differenze sostanziali.  Presumibilmente essere ospitato in una residenza terapeutica consente all’ospite una identificazione parziale con la struttura  poiché si presume che gran parte del tempo di vita possa svolgersi nella complessa realtà del mondo sociale , dove la costruzione della  propria identità può definirsi  soprattutto sulla base delle attività effettivamente svolte, sulle multi appartenenze che egli riuscirà a creare, su relazioni libere dai vincoli istituzionali.

In un certo senso il cliente dovrà far affidamento maggiormente alle “parti sane”, alle potenzialità , e riservare le criticità della sua condizione psicopatologica ai momenti più strettamente terapeutici, come accadrebbe se egli vivesse nel suo contesto di vita ordinario, presso il proprio domicilio, e la necessità delle ordinarie funzioni per provvedere alla propria vita lo obbligasse a poter esprimere gli aspetti più patologici solo nei setting specifici della psicoterapia , del gruppo terapeutico etc (qualora lui esprima il bisogno  di questi interventi). Questi elementi che ho appena descritto definiscono maggiormente le differenze tra una Comunità e una Residenza terapeutica e tra i differenti possibili afferenti ai due tipi di strutture.

Da un lato la Comunità con la complessità del suo intervento breve e intensivo e tutto sommato ad alta protezione (non più di 24 mesi, ampia presenza di operatori sulle 24 ore , molteplicità di setting specifici, coinvolgimento diretto della famiglia nel processo di cura, milieu nell’insieme terapeutico) dove la patologia del paziente può esplicarsi pienamente, spesso per la prima volta, ed essere tollerata (la tolleranza è uno dei principi della comunità terapeutica)  per essere curata. Dall’altro le Residenze terapeutiche , dove viene richiesta al paziente una certa funzionalità, una capacità di lasciare in una fase temporanea di latenza gli eccessi fenomenici della sua patologia (e riservarli a momenti e setting più specifici) una capacità di sperimentarsi da subito nel mondo dell’organizzazione sociale  e lavorativa.

Maxwell Jones a proposito di questa possibile evoluzione della comunità terapeutica scrive:

“ L’idea dell’organizzazione sociale deve essere sufficientemente estesa da descrivere un processo dinamico composto da molteplici fattori, tra cui l’esercizio attuale della psichiatria, l’utilizzazione dell’ambiente sociale per il miglioramento del trattamento terapeutico, l’importanza della comunicazione nei due sensi, l’espressione dei sentimenti e il concetto di situazioni di apprendimento diretto da situazioni di vita-  ,tutto ciò costituisce un processo evolutivo.”  (1968 pag.54)

Quanto ha scritto M.Jones  risulta oggi quanto mai vero anche se, a 50 anni dalla sua riflessione, non sembra ancora fatto proprio, nella cultura delle comunità, il concetto che:

“Una moderna concezione della comunità terapeutica la vede infatti aperta ai continui scambi con il territorio, all’utilizzo delle sue risorse e quindi all’analisi continua dell’influenza dei fattori esterni” (De Crescente pag 146)  2012

Conclusioni

L’esperienza delle residenzialità terapeutiche a bassa protezione, nata spesso dall’esigenza di graduare le dimissioni degli ospiti dalle comunità terapeutiche può costituire un’importante opportunità nella differenziazione di interventi  per i differenti bisogni di ospiti diversi. In particolare queste esperienze ci insegnano che il minor grado di protezione consente un maggiore utilizzo della realtà sociale a fini terapeutici e un minor utilizzo dell’apporto assistenziale (che correrebbe il rischio di aumentare i fenomeni di dipendenza) per quel particolare tipo di utenza che può avvantaggiarsi di  interventi simili, costituita da ospiti che hanno già effettuato il percorso in comunità o da pazienti con risorse disponibili da investire nella realtà esterna.

Questi interventi dimostrano un migliore e più razionale utilizzo delle risorse residue degli ospiti e di quelle delle equipe curanti, e quindi risultano economicamente più sostenibili nella particolare contingenza storica.

Bibliografia

Maxwell Jones, La psichiatria nell’ambiente sociale. Il Saggiatore, 1968

Lambert Maguire , Il lavoro sociale di rete . Erickson , 1983

Marino de Crescente, recensione di “Cura psichica e Comunità terapeutica” di U.Corino,M Sassolas in Gruppi ,vol 13° gennaio-aprile 2011

Marino de Crescente, La politica delle Comunità Terapeutiche. Alpes, 2011.

Ti potrebbe interessare anche